Cos'è il Catasto Onciario - Alla scoperta di Civitella Roveto

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Cos'è il Catasto Onciario

          

Ricercatore: Raffaele Testa     Testi: Angela Venditti     Coordinatore tecnico: Antonio Allegritti    



N
el 1740 le autorità del Regno di Napoli decisero di riformare il sistema fiscale. Quello vigente all’epoca si basava su due tipi di prelievo fiscale: a gabella sui consumi, e a battaglione sul patrimonio ed i redditi. Il sistema delle gabelle prevedeva esclusivamente dazi gravanti sui consumi, mentre il sistema a battaglione prevedeva la stima dei beni stabili di proprietà dei cittadini e dei redditi derivanti dalle loro attività che, depurati dei pesi, venivano sottoposti a prelievo fiscale. Il sistema a battaglione era in uso in pochissime università in quanto la maggior parte di queste preferiva vivere a gabella.
Il 4 ottobre, il Re Carlo III di Borbone, con propria 'Prammatica', incaricò la 'Regia Camera della Sommaria' di emanare apposite regole per la creazione dei catasti (la Forma Censualis) che furono pubblicate il 31 ottobre 1741.
Quest'intervento si rivelò, però, un sostanziale fallimento, almeno dal punto di vista della modernizzazione del sistema fiscale del regno, poiché non fu mai applicato.
Con il Catasto Onciario fu tentata l'introduzione, nel Regno di Napoli, di un più moderno sistema di tassazione della proprietà e dell'industria, ma permasero purtroppo, privilegi e sperequazioni, in particolar modo per i beni feudali che non erano tassati, i beni ecclesiastici che pagavano la metà delle imposte stabilite, e per il cosiddetto 'patrimonio sacro' esentato dai pesi.
Tra le sacche di privilegio, infatti ci fu l’esenzione per gli abitanti di Napoli e dei suoi casali dal pagamento della tassa catastale, e quindi dall’obbligo di 'formare' il catasto. In tutto il resto del regno, le 'Università' (le amministrazioni comunali dell’epoca) furono tenute ad una serie di adempimenti per l’istituzione del catasto e la ripartizione dell’imposta, che variava a seconda della specie di possessori di beni, i quali furono distinti nelle seguenti classi:

                 1) Cittadini, vedove e vergini;
                 2) Cittadini ecclesiastici;
                 3) Chiese e luoghi pii del paese;
                 4) Bonatenenti (ossia possessori di beni) non abitanti;
                 5) Ecclesiastici Bonatenenti;
                 6) Chiese e luoghi pii forestieri.




Nella classificazione delle persone, dei contribuenti, si procedeva anzitutto a distinguere cittadini e forestieri. Cittadini erano coloro che costituivano ‘fuoco’ delle Università, cioè i nativi residenti; forestieri tutti coloro che, pur non essendo del paese, avevano qui la residenza, o possedevano beni immobili.
Anche i laici venivano rubricati per loro conto, mentre gli ecclesiastici erano inclusi in un’altra rubrica, sia che si trattasse di persone fisiche, sia di Enti ed Istituzioni religiose.
Inoltre i cittadini erano suddivisi in abitanti e non abitanti, ma tutti indistintamente erano tenuti al pagamento del testatico, cioè della tassa quale capofamiglia. Unica eccezione per gli uomini che avevano superato i sessant’anni.
Gli uomini componenti il nucleo familiare erano gravati da una tassa personale determinata sul reddito proveniente dal lavoro, fissata tenendo in considerazione il numero dei ‘fuochi’, tra i quali andava ripartito il peso del tributo dovuto allo stato. Di questa tassa, tuttavia, i ragazzi fino ai 14 anni erano esenti, mentre quelli fino ai 18 anni dovevano corrispondere soltanto la metà.

Non pagavano testatico ed imposta sul lavoro coloro che vivevano di rendita dell'esercizio d'arti liberali, e coloro che vivevano nobilmente, ma tutti, lavoratori o proprietari, erano sottoposti al pagamento della tassa sui beni.

Le vedove e le vergini, se non erano incluse in un nucleo familiare, erano escluse dal pagamento della tassa sui beni se la rendita annuale non era superiore ai sei ducati.
Infine, le chiese, i monasteri, pagavano soltanto metà della bonatenenza.
Erano considerati beni tutti gli immobili, i capitali, le rendite e gli animali, mentre le case di propria abitazione, che rientravano ugualmente nell’elenco dei beni erano, però, specificatamente escluse dalle impostazioni. Da queste voci attive, dovevano essere sottratte quelle passive che erano costituite da censi, debiti e pesi da qualsiasi parte provenienti.
Tra le sperequazioni sancite dal nuovo sistema restava quella tra le persone che vivevano di rendita, alla maniera dei nobili, e quelle che esercitavano mestieri manuali: i primi erano tassati per i soli beni, mentre i secondi erano tassati in base ad un reddito presuntivo assegnato a seconda del mestiere. Il capitale investito nel commercio era invece tassato prefissando un reddito sul 10% del capitale, quell'investito nell'agricoltura sul 5% del capitale.
In particolare poi, siccome dal reddito tassabile si potevano dedurre i 'pesi' chiamati ‘accidentali’, ossia le spese di manutenzione e riparazione, i ricchi proprietari erano avvantaggiati, spesso anche con frodi o favoritismi, nelle deduzioni, non potendosi sempre accertare con sicurezza la reale consistenza delle suddette spese.
Per la formazione del catasto, dunque, tutte le ‘Università’ del Regno, ad esclusione di Napoli e dei suoi casali, furono tenute alla elezione di ‘deputati’ ed ‘estimatori’ incaricati della redazione degli atti preliminari al catasto e dello ‘apprezzo’, ossia della valutazione dei beni.
I cittadini e tutti coloro che possedevano beni in un centro abitato erano invece tenuti alla redazione della ‘rivela’, una vera e propria autocertificazione nella quale, oltre a riportare tutti i componenti della famiglia con le relative professioni, venivano indicati i redditi e gli eventuali pesi deducibili ai fini del calcolo della base imponibile.
Al termine della raccolta delle ‘rivele’, sostituite da valutazioni dei deputati ed estimatori in caso di mancata dichiarazione, era steso il libro del catasto, nel quale era riportato il calcolo della tassa a carico di ciascun nucleo familiare.
Dato però, che i Comuni ritardavano la presentazione dell'Onciario nei termini stabiliti, la ‘Camera della Sommaria’ fu costretta a ricorrere a misure coercitive, con l’invio sul posto di Commissari, per porre rimedio a ciò che appariva uno dei mali peggiori, in quanto era intendimento dello Stato riformare il sistema fiscale, incoraggiando l’industria e colpendo il lusso.
Questa riforma tributaria apparentemente cercava di supplire al fabbisogno del Governo, ed invece si trovò a creare delle storture. Infatti, la legge prevedeva che non si dovesse lasciare un palmo di terra non controllato dalla legge generale, però così facendo risultò che si era dato minor valore alla terra dei ricchi, forti e prepotenti, e più valore a quella dei poveri, che in tal modo finivano per essere maggiormente tassati.
A conti fatti, era più efficace una tassazione sui beni di prima necessità, come farina, olio, sale, carne e vino. Le gabelle, se pur guardate con sdegno, si pagavano, mentre le rate a scadenza giornaliera opprimevano i poveri.
Il catasto fu denominato Onciario in quanto la moneta usata per valutare i redditi e i patrimoni era l'oncia, un'antica moneta in uso nel Regno di Napoli fino all’epoca dei re Aragonesi, e non più circolante da alcuni secoli.
La moneta reale era il ducato, con i suoi sottomultipli carlino, grana e cavallo pari rispettivamente alla decima, alla centesima e alla millesima parte dello stesso. L'oncia usata per il calcolo del reddito imponibile, corrispondeva a tre carlini, mentre quando il calcolo si riferiva al reddito proveniente da animali questa equivaleva a sei carlini.
I metri di misura adottati dal nostro comune, e limitrofi, furono:
Canna - di palmi 15 Napolitani, per misurare il territorio
Coppa - 1 canna di larghezza e 50 di lunghezza
Quinta - 10 canne
Quarta - 12 canne e mezzo
Oncia dell'industrie e dei terreni - 3 carlini
Oncia dei mestieranti - 6 carlini


 
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